Oriente e Occidente

Dal finestrino appannato di un pullman gelido, per via di un uso spropositato dell'aria condizionata, si vedeva finalmente la Malaysia più vera, lontana dalla metropoli. Certo Kuala Lumpur si era rivelata molto interessante, ma come ogni capitale o grande città, da sola, non offriva una prospettiva rappresentativa di un'intera nazione.
Fuori diluviava. Enormi campagne verdi e selvagge, solcate da impetuosi ruscelli color terra, si alternavano a case sparse più o meno improvvisate e rifinite, mentre colline rigogliose cedevano il passo a vere e proprie foreste tropicali. Attraversando i villaggi si scorgeva poca gente in giro, solo qualche donna con il capo nascosto da un foulard e con vestiti lunghi ma molto leggeri, incurante della pioggia, faceva la spesa in variopinti negozietti con frutta esotica in bella mostra.
Scesi dal pullman al porto di Lumut e la coincidenza con il traghetto per la Palau Pangkor, una piccola isola sulla costa
occidentale del Paese, fu quasi immediata. Aveva smesso di piovere e seduta nel vento della prua, con qualche schizzo d'acqua che mi arrivava addosso scandendo il ritmo della navigazione, mi godetti l'ultima luce del giorno.
Dopo una mezz'ora l'imbarcazione arrivò a destinazione. Sul pontile, in mezzo a parecchie coppie locali e ad alcune mamme con bambini, scorsi una ragazza piccolina, con gli occhi a mandorla e un libro con caratteri giapponesi in mano (probabilmente una guida della Malaysia).
Nel tentativo di dividere le spese, unimmo le forze nella ricerca di un taxi per la zona con le spiagge più belle e, poi, di
una stanza (a testa) dove passare la notte.
L'operazione non fu affatto facile, era tardi ed eravamo nel pieno di un weekend all'inizio della stagione turistica locale: tipo in Italia in un sabato di giugno. La via centrale era affollata quanto un qualsiasi lungomare da noi in estate e il cartello No Vacancy (a volte solo in lingua locale) era affisso un po' ovunque.
Il proprietario di una delle numerose Guest House in cui tentammo la sorte, ci mise a disposizione per non più di una notte due camere diverse, una con aria condizionata e una senza, le uniche ancora disponibili.
Le proposi di dividere quella più economica (a dire il vero, per entrambe il cambio era molto favorevole) ma lei, addirittura più solitaria e diffidente di una valdostana, scelse di andare da sola nell'altra stanza.
Poco male. Mi sistemai e, affamata, uscii immediatamente alla ricerca della cena.
Vagando nel casino di Teluk Nipah, tra le luci, la gente, la musica e il profumo proveniente dalle bancarelle di Street Food, sentii gridare il mio nome. Era la ragazza giapponese, aveva avuto le mie stesse intenzioni e, soprattutto, si ricordava come mi chiamassi! Io, del suo nome, non avevo ancora neanche una vaga idea.
Mangiammo qualcosa insieme. A scanso di equivoci, io mi limitai ad ordinare un piatto che avevo visto passare, mentre lei fece una scelta più ponderata e consapevole.
La mattina seguente andò più o meno allo stesso modo. Ci trovammo all'uscita della Guest House, ebbi quasi la sensazione che mi stesse aspettando, ed insieme cercammo nuovamente una sistemazione per la notte.
Avrei poi dovuto recarmi nel paesino principale per prelevare ad un Bancomat, si propose di accompagnarmi. Il proprietario della Guest House, che ormai ci aveva preso in simpatia, ci offrì un passaggio in auto, ma su idea di Jinko (ecco come si chiamava...) decidemmo di avviarci a piedi per poi fare il giro intero dell'isola che, a spanne, non doveva essere più di 15/20 km.
Anche lei come me non era interessata a passare una giornata intera in spiaggia, tanto più che non faceva particolarmente caldo. Anche lei come me, aveva optato per un gelato come colazione, prima di iniziare la passeggiata. Nonostante un po' per la statura e un po' per lo stile sembrasse una ragazzina, Jinko aveva 35 anni e viveva da sola su un'isola vicino ad Osaka, alla quale era collegata da un ponte, e lì lavorava come donna delle pulizie per una compagnia che offriva vari servizi per turisti e che le dava un giorno libero a settimana, oltre a due mesi interi l'anno.
I suoi genitori vivevano a 30 min di macchina da lei, aveva un fratello e una sorella di 7 e di 8 anni più giovani, uno
programmatore informatico e l'altra massaggiatrice, e non aveva animali domestici (ma li fotografava tutti!).
Scoprii che la Malaysia in realtà era solo una piccola tappa durante il suo lungo viaggio, le cui destinazioni principali erano l'India e il Nepal, direzione che avrebbe ripreso tra un paio di giorni.
Il tutto, con uno zainetto microscopico. I giapponesi devono avere delle doti particolari per fare i bagagli, pensai.
Mi ricordò la mia amica Eri, con la quale viaggiai in Bulgaria e poi dalla Spagna al Portogallo. In una sacca da palestra era riuscita a far stare tutto il necessario per una settimana abbondante in giro, per lei e per il suo bimbo di 5 anni... compresi un quantitativo di panini in grado di sfamarli per almeno un paio di giorni.
Di certo, aveva una concezione di essenziale e necessario diversa dalla mia... Anch'io avevo uno zaino come bagaglio,
per carità, ma più grande del suo nonostante non avessi intenzione di andare fino in Nepal, dove le temperature e le condizioni ambientali le avrebbero inevitabilmente richiesto qualche vestito in più, o almeno un paio di calzature che non fossero le infradito.

Probabilmente se ne preoccuperà una volta là, pensai, il che poteva essere una valida opzione: acquistare solo ciò che serve davvero e a prezzi più bassi rispetto a quelli del Giappone. Oltretutto, contribuendo alle economie locali.
Tra una chiacchiera e l'altra, comunque, il giro dell'isola di Pangkor si rivelò estremamente interessante, sembrava che il
percorso ci avesse fornito un quadro ben rappresentativo di quelle che potevano essere le condizioni ambientali, le influenze culturali e le abitudini sociali di un'intera nazione: belle spiagge isolate da una parte, qualche resort dall'altra, un villaggio di pescatori un po' improvvisato rispetto ad altri gruppetti di case, ma anche una fabbrica in cui il pesce veniva lavorato, essiccato e confezionato sotto diverse forme e poi esposto alla vendita nel piccolo spaccio annesso. Dalla ricchissima vegetazione, incredibilmente fitta e rigogliosa, emergevano qua e là luoghi di culto delle più diffuse religioni orientali: templi buddisti, taoisti e hindu, ma anche tipiche moschee islamiche.
Mi resi conto che la Malaysia poteva stare a Jinko, giapponese, come una nazione quale la Bulgaria poteva stare a un'italiana. Un'equazione che presupponeva una distanza geografica relativa, ma un'analogia nella moltitudine di influenze culturali: di derivazione europea e quindi a me più accessibili, nel caso della Bulgaria ad esempio, di derivazione asiatica, dunque ben più affini alla giapponese Jinko, in quello della Malaysia.
Il giro si concluse con un bel bagno in mare tra gli scogli, quando ormai il sole stava tramontando. Cenammo insieme e lo stesso schema si rivelò applicabile alla nostra serata. Per lei era più facile scegliere il locale, ordinare al ristorante, ma anche apprezzare il gusto forte del pesce crudo o delle salsine piccanti dei piatti locali. Io avevo invece bisogno di sbirciare quello che veniva servito ad altri o di affidarmi allo Street Food, per capire cos'avrei mangiato e com'era stato cucinato.
Dopo cena, durante la solita passeggiata nell'affollato lungomare, Jinko si lasciò attrarre da un locale sulla sabbia, con
soli clienti malesi, dove si cantava al Karaoke. Entusiasta, fece parecchie fotografie per i suoi amici, si sentiva a casa: “in
Giappone si usa molto!”, mi disse sorridente. Sia il Karaoke che le foto, pensai...
Le proposi di provare a fumare il Narghilé, abitudine che dal medio-oriente si era evidentemente spostata fino a qui, prendendo piede soprattutto in Paesi come il Vietnam, proprio in quegli stessi bar che davano ai clienti la possibilità di cantare al microfono sulla musica delle canzoni più popolari.
Da noi non era così conosciuto (se non nelle grandi città) e men che meno lo era in Giappone, dedussi dalla perplessità
che Jinko dimostrava di fronte a quello strumento in vetro, pieno d'acqua e con un tubicino colorato dal quale a turno si aspirava del fumo, rinfrescato ed aromatizzato.
Toccò a me scegliere il gusto del tabamel, il composto a base di tabacco e melassa da inserire nel Narghilé: cappuccino! Assurdo che potesse esistere in un sapore del genere, lo riconosco, ma in una serata così fusion mancava giusto qualcosa che in un certo senso mi rappresentasse... qualcosa che sapeva di italiano!
L'indomani fu il proprietario della Guest House ad accompagnarci alla fermata del traghetto, quella secondaria nella
Chinatown dell'isola, dato che io, a differenza di Jinko, ero abbastanza in ritardo sulla tabella di marcia.
Rientrammo poi insieme in pullman fino alla capitale e da lì mi accompagnò a Seremban, cittadina comoda ad entrambe, a lei per l'aeroporto e a me per andare a Malacca, dove le nostre strade si divisero.
Lì, la ragazza piccolina con gli occhi a mandorla e i capelli scuri e quella più alta, chiara e con gli occhi azzurri, ovvero
Oriente e Occidente, secondo un'appropriata etichetta ironicamente affibbiataci dal nostro albergatore, si salutarono. Senza troppe parole, non solo per le difficoltà comunicative (il suo inglese era anche meno scorrevole del mio), ma anche per indole. Ci scambiammo velocemente un contatto e la vidi allontanarsi, con il suo zaino leggero in spalla e la sua guida a me incomprensibile in mano.